Le catene di approvvigionamento globali sono arterie vitali per l’economia ma il libero scambio pressoché senza barriere è ormai finito. Tra i tanti motivi, uno dei più evidenti è la disputa commerciale tra USA e Cina, che quest’anno è tornata più volte a infiammarsi. Da aprile il presidente americano Donald Trump ha prima aumentato drasticamente i dazi, in particolare sulle importazioni cinesi, poi ne ha sospesi alcuni per infine rilanciarne altri. A tratti i dazi americani sulle merci cinesi sono schizzati al 145%. Ma ad esserne colpiti sono anche Svizzera, UE, Canada e altri partner commerciali orientati all’export, che in diversi casi hanno risposto con contromisure.
Nel 2025 le dinamiche del commercio mondiale si sono intensificate. Una maggiore frammentazione, barriere commerciali e tensioni geopolitiche costringono le imprese a ripensare le loro strategie di approvvigionamento e di produzione. In questo scenario la società di consulenza Boston Consulting Group (BCG) ha analizzato come le imprese siano chiamate a trovare un nuovo equilibrio tra efficienza – leggi una forte consapevolezza dei costi – e resilienza, che invece li genera, secondo un approccio noto come il modello «Cost of Resilience ».
Quattro megatrend
Gli attuali conflitti commerciali si riducono in sostanza ad alcuni Stati che impongono i propri interessi usando la loro potenza economica, espressa, sostiene BCG, anche sotto forma di enormi incentivi statali nell’ordine dei miliardi a favore dei settori industriali nazionali. Secondo lo studio, questa leva economica dello Stato (economic statecraft) è uno dei quattro megatrend che condizionano la gestione della catena di approvvigionamento delle aziende e le pone di fronte a sfide importanti. Gli altri tre megatrend sono i rischi climatici, la crescente carenza di personale specializzato e l’affermazione della robotica. Nel loro studio «Balancing Cost and Resilience: The New Supply Chain Challenge», gli autori spiegano come questi megatrend stiano accelerando un cambio di paradigma, peraltro già in atto, nell’approvvigionamento globale.
La mentalità – si legge – è di fatto radicalmente mutata. Per decenni il mantra «Cost is King» la faceva da padrone: l’importante era spendere poco. Efficienza, produzione di massa, consegna just-in-time e delocalizzazione della produzione in Paesi con lavoro a basso costo erano il paradigma dominante. Poi è arrivato il Covid-19. E nel 2022 la Russia ha attaccato l’Ucraina. All’improvviso le fabbriche si sono fermate, le catene di approvvigionamento si sono spezzate, mancavano componenti importanti e i prezzi sono saliti alle stelle. Ne è seguito un cambio di rotta radicale nella gestione della supply chain, all’insegna della resilienza a tutti i costi. Le imprese hanno reagito con un rimpatrio della produzione, un aumento delle scorte e una doppia copertura, la diversificazione delle catene di approvvigionamento con una maggiore prossimità ai mercati di sbocco, ecc. Ma i costi sono troppo alti. La svolta è arrivata con l’esplosione dei dazi del 2025. BCG calcola che ad oggi dal 20% al 30% dei margini di profitto (EBIT) di tutti i settori industriali siano a rischio. Anche se naturalmente tutto potrebbe tornare a cambiare da un momento all’altro.
Reagire agli ostacoli con agilità
In nome del principio di precauzione, ogni impresa si trova ora a dover affrontare la questione centrale di come mantenere la competitività globale della gestione nella catena di approvvigionamento e dotarsi al contempo di capacità di resilienza. BCG suggerisce un modello di business sulla base del «Cost of Resilience». La grande sfida consiste nello stabilire reti di produzione e di fornitura in grado di reagire agilmente ai nuovi ostacoli e imprevisti senza perdere margini o quote di mercato.
La Dr. Johanna Pütz, partner presso BCG ed esperta di clima e sostenibilità con focus sui beni industriali e sull’automotive, sintetizza l’approccio così: «Chi, in questo decennio, misura le catene di approvvigionamento solamente sulla base dei costi finirà per perdere quote di mercato. Il nuovo standard è il costo della resilienza, dove per resilienza si intendono investimenti mirati, e non costi in più, integrata a livello di strategia, budget e decisioni».
Questo cambio nella gestione probabilmente è più facile a dirsi che a farsi. Di certo, sostiene BCG, le vecchie ricette di successo non bastano più perché le attuali tendenze mettono in difficoltà anche chi prima deteneva la leadership dei costi. Quindi cosa bisogna fare?
Tornando al megatrend dei rischi climatici, la società di consulenza, che ha analizzato i 50 poli produttivi mondiali, afferma che circa l’8% della produzione globale è esposta ai rischi climatici, soprattutto l’elettronica e i semiconduttori in Asia. Johanna Pütz ribadisce: «Ormai gli eventi meteorologici estremi legati al clima non sono più una questione secondaria dell’agenda ESG, bensì un rischio operativo: quasi un terzo della movimentazione portuale mondiale è esposta a un rischio elevato». Le imprese sono costrette innanzitutto a identificare tali rischi per le loro sedi. Tra l’altro, Svizzera e UE prevedono una simile analisi estesa dei rischi tra le linee guida e i requisiti per il reporting di sostenibilità. La Managing Director e partner di BCG specifica: «La resilienza inizia con la trasparenza, seguita da decisioni relative alla sede e alla rete – e non solo in caso di crisi, ma come parte della pianificazione strategica».
Un altro rischio da gestire è la carenza di manodopera, oggi sempre più diffusa anche nelle fabbriche. La buona notizia è che, secondo BCG, il 23% del personale qualificato a livello mondiale si sposta attivamente all’estero. Le imprese che vogliono competere in questo mercato del lavoro globale devono tuttavia svolgere attività di lobby e farsi trovare preparate in materia di normative sui visti, politiche migratorie e programmi di formazione, ma anche di scelte delle sedi e di employer branding intelligente. Questo perché i talenti digitali particolarmente richiesti vogliono datori di lavoro a forte vocazione tecnologica e grandi città vivibili con una buona infrastruttura tech. Non a caso Oracle ha trasferito la sua sede centrale nelle Silicon Hills di Austin, in Texas.
La ricerca di personale qualificato è anche strettamente legata al trend della diffusione della robotica. Secondo BCG, questa innovazione dirompente potrebbe aumentare la produttività fino al 50%, soprattutto nel settore automobilistico e nella logistica. Benché la Cina detenga il primato mondiale nell’installazione di robot, Giappone e Europa occidentale sono leader nella produzione, ricerca e applicazione. Ma se la robotica può tagliare i costi, ci si chiede che senso abbia la produzione globale con le sue criticità di approvvigionamento.
Garantire la competitività
È quindi indispensabile esaminare tutte queste tendenze, incluse le analisi di scenari geopolitici e climatici, e la successiva definizione della strategia. Dallo studio di BCG emerge che, per quanto diversi possano essere i settori, le imprese di successo adottano misure simili. Aprono un numero maggiore di sedi per la propria produzione, diversificano quelle dei fornitori e mitigano il rischio siglando contratti con più fornitori per lo stesso prodotto (dual sourcing). Inoltre si orientano sempre più verso catene di approvvigionamento regionali anziché globali, su joint venture e broker multinazionali che, grazie alla rete di fabbriche sparse su più Paesi, assicurano maggiore flessibilità di approvvigionamento.
E non da ultimo, le imprese hanno bisogno anche di persone esperte in catene di fornitura (vedi riquadro). Queste devono gestire una gamma di rischi più ampia rispetto al passato e stabilire indicatori di performance nell’azienda per misurare il valore complessivo dell’approvvigionamento e valutare eventuali compromessi tra costi e resilienza. Le imprese che riescono a trovare un equilibrio tra questi due aspetti potranno contare su una competitività sostenibile in tempi di crescente incertezza.