Certi fenomeni quotidiani sembrano scontati. Come l’evaporazione, il processo per il quale l’acqua, riscaldandosi, forma una colonna di vapore. In sé nulla di straordinario. Ma non per Giulia Tagliabue che non lo considera qualcosa di banale, bensì una risorsa dalle potenzialità quasi infinite, da sfruttare per un approvvigionamento energetico sostenibile.
Tagliabue dirige il Laboratorio di nanoscienze per le tecnologie energetiche (LNET) dell’EPFL, il politecnico di Losanna, dove studia la nanofotonica. Questo campo di ricerca ancora piuttosto nuovo che negli ultimi tempi ha compiuto passi da gigante grazie a risultati promettenti, studia l’interazione tra luce e materia su scala nanometrica. Bisogna sapere che quando i fotoni, le più piccole unità di luce, colpiscono particelle, filamenti o superfici su nanoscala, possono prodursi effetti del tutto nuovi. Questo perché a livello nanometrico i materiali si comportano in modo insolito e danno vita ad affascinanti interazioni con la luce. Se comprendiamo questi effetti, possiamo controllarli e usarli, per esempio per produrre e stoccare energia.
L’obiettivo è chiaro, ma la strada ancora lunga. Un nanometro corrisponde a un miliardesimo di metro. Su questa scala, anche un capello umano con una sezione trasversale fino a 100 000 nanometri assume improvvisamente dimensioni gigantesche. Ciò significa che il nanomondo è invisibile a occhio nudo ed estremamente difficile da decifrare ma, al contempo, ha anche molto da offrire.
La radiazione solare, per esempio, può da sola indurre un flusso di energia su nanoscala, che la ricercatrice vuole rendere applicabile grazie alla sua ricerca: «Prima però dobbiamo capire quali sono le dinamiche principali», afferma. «È un ambito molto complesso perché a livello nanometrico si verificano molti fenomeni diversi contemporaneamente che innescano gli effetti più disparati. Il nostro obiettivo è comprenderne almeno i più importanti». È per questo che si dedica soprattutto alla ricerca di base e cerca collaborazioni al di fuori della sua disciplina che integrino le competenze o gli strumenti del suo team.
Come dimostra anche la sinergia con esperti di modellazione, l’interdisciplinarietà si è rivelata vincente: «Progettiamo i nostri esperimenti in modo tale da fornire dati estremamente precisi a chi si occupa di teoria», spiega Tagliabue. «In cambio riceviamo previsioni che confrontiamo con i nostri risultati per vedere se combaciano. Così raccogliamo dati a cui non avremmo altrimenti accesso». Informazioni che confluiscono anche nelle tre aree di ricerca del laboratorio di Tagliabue.
La luce viene «catturata»
La catalisi plasmonica per l’accumulo di energia fotochimica è l’area di ricerca che controlla le reazioni chimiche scatenate dalla luce. In generale, i catalizzatori servono ad accelerare i processi chimici, e nella versione plasmonica anche la luce svolge un ruolo importante. Solitamente sono costituiti da oro o argento di dimensioni nanometriche in quanto questi metalli hanno la proprietà fondamentale di essere ottimi catalizzatori. Ma sono in grado anche di «catturare» con efficienza la luce e generare così una grande quantità di energia che a sua volta può innescare, accelerare e controllare diverse reazioni chimiche. Si tratta di un approccio importante perché i catalizzatori tradizionali spesso operano ad alta pressione e a temperature elevate, consumando molta energia. La catalisi plasmonica sarebbe decisamente più sostenibile e potrebbe servire in futuro per produrre idrogeno verde grazie alle nanoparticelle d’oro irradiate con luce solare.
«È il settore in cui lavoro da più tempo perché me ne ero già occupata per la mia tesi di dottorato», dice Tagliabue. «Grazie a questi studi preliminari, il nostro lavoro poggia su una profonda comprensione di questi processi microscopici». E sta dando i suoi frutti: come ha riferito qualche tempo fa la rivista Light: Science and Applications, il team è riuscito a dimostrare un effetto prima sconosciuto dell’interazione tra nanoparticelle d’oro e luce.
Lenti innovative
Un altro tema centrale è la nanofotonica termica per sistemi riconfigurabili, in pratica l’interazione dei nanomateriali con la luce e il calore. Qui il mondo della ricerca spera di sviluppare sistemi innovativi per la sensoristica o l’optoelettronica in grado di adattare in modo reversibile la loro struttura o le loro funzioni alle condizioni ambientali.
«Per esempio lenti per applicazioni di imaging», spiega Tagliabue. Sono le cosiddette metalenti: componenti ottici innovativi che, invece di focalizzare la luce come le lenti convenzionali, usano superfici con nanostrutture. Questo le rende fino a 1000 volte più sottili e in futuro apriranno la strada a sistemi ottici più compatti, leggeri ed economici che mai. I campi di applicazione potrebbero essere le fotocamere degli smartphone o gli endoscopi medici.
«Sappiamo già come realizzare metalenti perfettamente piatte», dice Tagliabue. «Ma ci piacerebbe poter intervenire a posteriori per modificarne le proprietà. Dipende dalla loro struttura, che vogliamo modificare attraverso la temperatura, cioè la luce. Un esempio potrebbe essere una lente che a temperatura ambiente ha una determinata lunghezza focale, modificabile una volta esposta alla luce e riscaldata. Se di difficile accesso, potremmo anche procedere senza nemmeno toccare la lente».
Correnti elettriche
La terza area di ricerca è la generazione idrovoltaica, vale a dire l’utilizzo dell’evaporazione dell’acqua. Quasi la metà dell’energia solare che raggiunge la terra alimenta questo processo. Il potenziale energetico è enorme perché l’evaporazione agisce come una pompa e crea un flusso continuo di acqua che può essere sfruttato grazie a nanocanali all’interno di speciali dispositivi. Quando l’acqua li attraversa per poi evaporare, si generano correnti elettriche e tensione.
Questi dispositivi non sono ancora pronti per l’applicazione industriale, anche perché non ne sono ancora chiari tutti gli effetti rilevanti. Tagliabue e il suo team hanno sviluppato una nuova piattaforma sperimentale con nanopilastri di silicio distanziati con precisione per testare l’effetto idrovoltaico dell’evaporazione in condizioni strettamente controllate. Come riferito nella rivista scientifica Cell Press Device, ciò ha permesso di fare una scoperta chiave. «Contrariamente a quanto finora ipotizzato, non è necessario usare acqua ad elevata purezza per far funzionare i dispositivi idrovoltaici», spiega Tagliabue. «Va bene anche l’acqua del rubinetto o del mare».
Questo potrebbe aprire la strada ad applicazioni interessanti in aggiunta alle soluzioni già esistenti per la produzione di energia. «Penso sia necessario un mix di approcci sostenibili da poter adottare in modo flessibile e a seconda delle condizioni ambientali», sostiene Tagliabue riferendosi all’approvvigionamento energetico del futuro. «E questo approccio potrebbe offrirci un’alternativa in più».
Insieme al suo team vorrebbe ora usare i finanziamenti del Fondo Nazionale Svizzero per testare un prototipo di modulo idrovoltaico in condizioni reali sul Lago di Ginevra. Inoltre sono ipotizzabili anche applicazioni su piccola scala, dato che i dispositivi idrovoltaici richiedono solo una quantità minima di liquido evaporante. Magari in futuro si potrebbe sfruttare la formazione di sudore per far funzionare in questo modo anche i fitness tracker indossabili.