Le ragioni sono tante. Questo modello di business si basa sull’immettere nel mercato il maggior numero possibile di collezioni (spesso 12-24 all’anno) e a prezzi stracciati. Come può funzionare senza che venga pregiudicata la qualità e che nessuno ci rimetta? Dal punto di vista commerciale il fast fashion è un successo per le aziende. Il gruppo target di adolescenti e giovani adulti fa incetta di capi d’abbigliamento alla moda, le vendite lievitano e la crescita è vertiginosa. Ma la forte domanda si traduce in un elevato consumo delle risorse. Per fare un esempio: l’impronta idrica per un paio di jeans da 800 grammi è di quasi 8000 litri – quanto 50 vasche da bagno da 160 litri. Il consumo estremamente elevato è dovuto alla coltivazione particolarmente complessa e ad alta intensità idrica del cotone. Per una maglietta (250 grammi) servono 2500 litri d’acqua.
E comunque la produzione tessile è tra i settori più nocivi per l’ambiente. L’inquinamento idrico da sostanze chimiche e coloranti nonché le emissioni di gas serra causate dal trasporto e dallo smaltimento dei vestiti hanno un forte impatto ambientale. Il fast fashion, caratterizzato dalla produzione di grandi quantitativi con una breve durata di vita, non fa altro che amplificare questi effetti negativi. Incoraggia inoltre una mentalità usa e getta: quello che oggi è in voga domani è già fuori moda e finisce nella spazzatura. Le montagne di rifiuti crescono. L’enorme discarica di abiti usati nel deserto sudamericano di Atacama è diventata il simbolo delle conseguenze dell’industria globale del fast fashion. Nella migliore delle ipotesi i vestiti smessi vengono riciclati. Spesso, però, sono in materiale sintetico non biodegradabile, come il poliestere.
Un altro fattore negativo della moda low cost: le condizioni lavorative di chi confeziona i vestiti nella catena di approvvigionamento a monte. La produzione infatti è spesso localizzata in Paesi con bassi costi salariali, pessime prestazioni sociali e scarsi diritti umani, come Cina o Bangladesh. Interessa soprattutto le donne, ed è tutt’altro che sostenibile. Quale sarebbe l’alternativa al fast fashion?
Semplicemente ridurre gli acquisti e, in compenso, optare per un guardaroba prodotto in modo sostenibile, di migliore qualità e che dura di più. In Europa centrale vengono comprati in media 60 nuovi capi d’abbigliamento all’anno! Gli effetti di un uso più prolungato di pantaloni, maglie o magliette sono descritti in uno studio pubblicato da INFRAS nel marzo 2022. Se in Svizzera si usassero tutti i vestiti tre anni in più, si risparmierebbero 1,5 milioni di tonnellate di equivalenti di CO2 – quanto i gas serra emessi in un viaggio in auto di 7,4 miliardi di chilometri. Per non parlare delle ripercussioni ambientali dovute a sostanze chimiche e pesticidi tossici nella coltura del cotone e di aspetti sociali come lo sfruttamento nel settore tessile.