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L’etica che guida gli affari
Economia

L’etica che guida gli affari

Negli USA la figura del «Chief Ethics Officer» è diffiusa da alcuni decenni mentre in Europa il tema della responsabilità sociale d’impresa ha iniziato a prendere piede solo in tempi più recenti.

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Responsabilità sociale d’impresa, etica aziendale, sostenibilità… questi e altri lemmi sono da qualche tempo molto gettonati nel mondo del lavoro (e non solo). Ma così nuove non lo sono: di «corporate social responsibility» (CSR) e di «business ethics» si discute (e si scrive) infatti almeno dagli anni Sessanta, mentre la Dichiarazione universale dei diritti umani, che è un po’ il fondamento di questi temi, risale ancora a prima, al 1948. Eppure, l’impressione è che questi concetti non siano permeati sufficientemente, o del tutto, nel mondo del lavoro e degli affari.

Come ha scritto in questi giorni sul CdT la docente e ricercatrice della Supsi Jenny Assi, «è importante creare una cultura basata sul senso di responsabilità. È inutile scrivere in un codice di condotta che: “In azienda devono essere garantite pari opportunità”, se poi questo principio non è allineato ai valori del management. Il processo di sostenibilità va compreso per essere concretizzato».

Su questa linea di pensiero si trova anche Ivan Ureta Vaquero, docente e co-direttore scientifico del corso di formazione continua Certified Responsible Leader alla Supsi (v. correlata): «In genere la CSR viene capita dai manager aziendali, i quali però la “traducono”, il più delle volte, in un mero esercizio di compliance, tipicamente nella redazione del rapporto di sostenibilità, un documento sempre più richiesto anche a livello normativo», ci spiega. «Ma il senso più profondo della responsabilità sociale d’impresa non è ancora interiorizzato da parte dei manager d’azienda».

Ricchezza privata e pubblica

La CSR è uno fra i tanti elementi di cui si dovrebbe tener conto in una moderna azienda od organizzazione che vuole essere «sostenibile» e si inserisce nel macro-tema della citata etica aziendale. Uno dei massimi esperti internazionali di questo argomento, da noi interpellato, è l’economista svizzero Georges Enderle, professore emerito alla University of Notre Dame (Indiana, USA) e co-fondatore del European Business Ethics Network: «Credo che un cambio di paradigma possa presto realizzarsi, dopo quarant’anni di “deregulation” dettata dal dogma dello shareholder value maximisation», afferma.

Ma Enderle va oltre la questione della contrapposizione fra la creazione di valore per gli «shareholder» (azionisti) e per gli «stakeholder» (membri della società). In un suo volume di recente pubblicazione lo studioso propone invece una concezione radicalmente nuova della responsabilità d’impresa nel contesto globale e pluralistico.

Nel suo libro Enderle sostiene, in essenza, che la ricchezza di una nazione debba essere la combinazione fra ricchezza privata e pubblica: il settore privato (le imprese) dovrebbe includere nei processi di creazione di valore il capitale naturale, economico, umano e sociale nel rispetto dei diritti umani, richiamando allo stesso tempo l’attenzione sull’importanza fondamentale della ricchezza pubblica, senza la quale non è possibile creare ricchezza privata.

Il paradigma «etico»

Professor Enderle, ci sembra che lei faccia riferimento al modello dell’economia sociale di mercato adottato da alcuni Paesi europei, tra cui anche la Svizzera, nei «trenta gloriosi» anni del Dopoguerra… «La questione posta all’epoca era quale fosse un sistema economico “giusto” ed efficiente. Si cercava una “terza via”, un’alternativa al sistema capitalistico e a quello dell’economia pianificata. Oggi però le sfide sono più complesse, viviamo in un mondo globalizzato caratterizzato anche da fenomeni nuovi quali i cambiamenti climatici, i rischi pandemici, le guerre e le tensioni sociali.

Tuttavia, rispetto ad allora, disponiamo di diversi strumenti che aiutano le aziende a districarsi e ad adeguarsi al paradigma “etico”. Penso, ad esempio, ai Principi guida per le imprese e i diritti umani dell’ONU che forniscono uno standard globale autorevole per prevenire e affrontare il rischio di impatti negativi sui diritti umani legati all’attività imprenditoriale. Negli Stati Uniti, tra l’altro, già dai primi anni Novanta si è diffusa nelle grosse aziende la figura del “responsabile dell’etica” (Chief Ethics Officer) che nelle situazioni migliori fa riferimento direttamente all’amministratore delegato e ha potere decisionale in seno alla direzione generale».

Aziende quali «attori morali»

Eppure, nonostante le regolamentazioni, le linee guida, i principi ecc. non tutte le aziende agiscono in maniera responsabile ed etica… «Nel preambolo della Dichiarazione universale del ’48 dell’ONU c’è un accenno al fatto che anche le organizzazioni sono tenute a garantire i diritti individuali. Questo è il fondamento del mio lavoro, ovvero che nel moderno mondo interconnesso anche le imprese hanno una responsabilità in materia di diritti umani. Sono quindi degli “attori” morali, alla stregua delle “persone” morali».

Un’opportunità per le imprese

Il cambiamento paradigmatico verso una cultura dell’etica negli affari è in atto, ma quando lo vedremo in modo più chiaro? «Diciamo che ci sono aziende “buone” e altre “cattive”. Le seconde non hanno verosimilmente capito che l’etica aziendale, al di là della questione normativa, rappresenta un’opportunità per l’azienda stessa. Pensiamo solo a come si potrebbe migliorare l’ambiente di lavoro e, di riflesso, le relazioni con la comunità circostante.

La formazione gioca un ruolo importante in questo cambiamento. Posso dire che l’etica aziendale viene insegnata a livello universitario negli Stati Uniti già a partire dagli anni Ottanta. L’Europa è un po’ in ritardo in questo senso, ma nemmeno troppo. La Svizzera, invece, potrebbe – e dovrebbe – fare di più».

A scuola di leader, ma responsabili

Da un recente studio di Accenture («Whole-Brain Leadership: The New Rules of Engagement for the C-suite») emerge che il 65% dei dirigenti nel mondo sono consapevoli di avere delle carenze nelle competenze trasversali, le cosiddette «soft skills», fondamentali nelle relazioni interpersonali e nel modo di porsi rispetto al contesto lavorativo. Nelle organizzazioni moderne, infatti, si opera in una realtà complessa e non prevedibile che richiede approcci adattivi.

Da qui l’esigenza di formare la classe dirigente, ma non solo, affinché sviluppi un approccio alla leadership diverso. Il corso «Certified Responsible Leader», una prima in Svizzera, organizzato dal Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale della Supsi e ALMA Impact AG, mira a incrementare la sensibilità di leader aziendali e imprenditori sui temi della sostenibilità e della responsabilità applicata ai processi di leadership aziendale in modo strategico e trasversale.

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